martedì 6 maggio 2014

VEDI NAPOLI E POI MORI

“Oggi non ce la posso fare”. Questa era la frase preferita da Giulia, la mia collega milanese che si occupava di contabilità. Ogni mattina arrivava in ufficio con gli occhiali scuri (anche in caso di nebbia) tutta spettinata e, buttando già stanca la borsa e le chiavi del motorino sulla scrivania, schivava gli sguardi di tutti i colleghi e a chi le rivolgeva parola nella prima mezzora ripeteva in continuazione: “Statemi lontano che oggi ho il vaffanculo easy”.
Nemmeno se provavo ad offrirgli un caffè cambiava la situazione: “Smettila Gianka, sono presa male!” mi liquidava, fino verso le undici e mezza quando, dopo aver sentito al telefono l’amica del cuore ed averle scaricato addosso tutta l’ansia che la turbava, appendeva la cornetta e diventava più malleabile. 
“Giulia lo vuoi un sushino per pranzo?” le diceva Roby, il collega anch'esso milanese da più generazioni che tentava di fare breccia nel suo cuore ma solo raramente riusciva a malapena ad essere considerato. Lei invece, lo sapevano tutti, pendeva dalle labbra di Luca, il grande capo, cinquantenne, affascinante, carismatico ma molto concentrato su di sé.
Pur senza mai dichiararsi, non perdeva occasione per compiacerlo o elogiarlo anche se lui non coglieva mai le sue intenzioni.
Per Andrea, il collega che con me gestiva la programmazione informatica, Giulia era uno “scaricatore di porto” o  meglio una donna “acqua e sciacquone”. A sua detta infatti lui era attratto dalle cosiddette “fighe di legno” come un’ape è attratta dal miele; quelle donne il cui scopo di vita consiste nel farsi guardare e ammirare nella loro perenne “posa plastica” come fossero marmi romani dell’età imperiale. Fa niente se per inseguire queste finte Barbie ogni volta si ritrovava con il morale sotto alle suole perché dopo venti mesi di corteggiamenti si sentiva dire che “era meglio rimanere amici”.
Le tipe come Giulia invece dalla frase facile ripetuta a intermittenza “cazzo vuole questo?” faceva capire che dietro non c’era un copione bello e pronto da seguire ma era anche fin troppo naturale e spontanea in tutto quello che faceva: mangiare, bere, sedersi, rispondere al telefono e fare la spesa. 
“Figa sto wi-fi non viaggia oggi……Giankaaaaaaa!”. Mi urlava infischiandosene di tutti coloro che la sentivano. Giulia era così, se aveva un problema lo diceva, non ti pugnalava alle spalle per poi abbassare lo sguardo quando ti avrebbe incontrato.
Io ho la targa Made in Sud da molteplici generazioni (sono quello che i Milanesi definirebbero un terrone verace) e porto nel cuore Mergellina, quartiere dove nato e cresciuto, il Golfo di Posillipo, dove ho baciato la mia prima guagliona e la pizza napoletana, unica al mondo per la sua saporita pummarola. Ma Napoli, oltre che per la fama di cui si parla in tutto il mondo, per me rappresenta soprattutto dei chiari riferimenti, la città dei panni stesi tra una casa e l’altra, i tabernacoli addobbati, le macchine parcheggiate ovunque senza una regola e i motorini dalle marmitte truccate che sfrecciano per le viuzze con tre persone in sella. E poi i rumori, i suoni, tutto rimbomba tra quei palazzi alti e stretti dove la gente si parla da una finestra a quella di fronte facendo sapere a tutti a che ora e cosa mangia.
A vent'anni, terminati gli studi per diventare geometra e aver capito che Napoli non mi offriva granché per vivere, per evitare di diventare un “mariuolo” come la maggior parte dei miei concittadini coetanei che non avevano voglia di studiare né di lavorare, salutai i miei e, in una classica jurnata ‘e sole di maggio, salii sul treno senza biglietto con quei quattro soldi che ricevetti dalla mia famiglia, una chitarra in mano e la medaglietta di S. Gennaro al collo (il Santo di cui porto il nome) con la benedizione di donna Angela, mia madre che mi disse: “a’ Genna’, ricuorda che int’à vita è important avè tre cos: core, cap e palle. O’ core pè amà, a’ cap pè ragiunà e pall pè affruntà”.
Arrivato a Milano, venni ribattezzato “Gianka” per comodità e abitudine dei milanesi a stravolgere e ad abbreviare i nomi, poiché la loro proverbiale fretta li porta ad accorciare tutto per ottimizzare i tempi e a trovare nomignoli ad ogni genere di cosa.
Così appresi come Luisa diventa automaticamente Lu; Silvia diventa Silvi; Maria Mari; Mattia Matti; e Sofia Sofi. 
Oltre la quinta lettera del nome viene apportata l’abbreviazione!
Condividevo una casetta in affitto con altri due ragazzi: Tony (originario di Brescia a cui puzzavano sempre i piedi) e Yuri (italo-cinese, un tipo molto silenzioso ma ottimo cuoco). Per fortuna avevamo orari e ritmi lavorativi molto ben incastrati da permetterci anche una relativa privacy all'interno di quelle quattro piccole mura in zona Piazza Napoli (la scelta del quartiere con quel nome mi faceva un po’ sentire a casa).
Con la busta paga che percepivo riuscii a iscrivermi ad una palestra per tenere in forma il mio fisico e lì, nel paradiso per veri narcisi milanesi incontrai il top del top della società moderna che si destreggiava tra espressioni, tendenze e abitudini tipiche di questa nuova esigenza linguistica urbana che stava esplodendo e di cui divenni anch'io partecipe.
Curioso scoprire come si comporta il palestrato milanese. Di solito ha su per giù trent'anni, corpo lampadato color mattone, capello ingellato, petto nudo per mostrare la tartaruga, tatuaggi ben in vista, pantaloncini griffati dai quali esce la cuffia del MP4 che ascolta mentre fa il tapis roulant e doppio polsino per asciugare il sudore che cola dalla fronte.
Di solito si presenta in palestra dal mercoledì al venerdì: il mercoledì fa solo petto e tricipiti, il giovedì solo gambe e il venerdì tappeto scorrevole e cyclette. Ma del tempo che ha a disposizione ne utilizza un quarto per l’allenamento e il resto per fare “pubblic relation” o più volgarmente “abbordare figa”. Si perché il Milanese palestrato medio fa sempre balà l’oeucc per raggiungere questo scopo di cui ha la fissa in testa!
Tra loro i palestrati milanesi approcciano con un “Bella!” o “uè grandissimo” e si stringono la mano incrociando i pollici e avvolgendo le altre dita tutte intorno all'altrui metacarpo. Usano il sostantivo “cazzo” o “figa” come se piovesse per introdurre ogni discorso o come intercalare e hanno centomila contatti nei loro social network che spesso nemmeno conoscono.
Poi c’è tutta una categoria a parte, quella dei gay, che si cercano e riconoscono tra loro e che utilizzano la palestra per rifarsi gli occhi. Griffati dall'intimo alle scarpe ma mai a petto scoperto. 
Mi feci consigliare da Giulia il luogo dove andare ad acquistare la miglior tenuta sportiva e, in un suo momento di buona, mi accompagnò da Decathlon e mi vestì dalla testa ai piedi come un vero sportivo doc. 
Il mio fisico esilino ci mise un po’ di mesi a raggiungere livelli di muscolatura interessanti ma la costanza e l’impegno presto mi restituirono un’immagine scolpita e degna di un vero palestrato. 
Il Mondo dei palestrati è un bel puzzle di comportamenti, generi e mode. Dai fissati delle barrette ipocaloriche ai maniaci della retina doma riccioli. Dai patiti della cyclette ai fedelissimi dell’ago della bilancia. Il culto del corpo a Milano spesso diventa più importante per gli uomini che per le donne e in palestra la lista di iscritti è in continua crescita. 
Anche questo mondo però non è esente da luoghi comuni: il palestrato ha il pisello piccolo, il palestrato ha le tette più grosse della propria ragazza e non riesce a tenere le braccia attaccate al corpo per la massa muscolare sviluppata nei tricipiti.
Se ne sentono di ogni. Tra i tanti frequentatori della palestra conobbi Richy. Tipico milanesone bauscia da più generazioni. Di cognome faceva Brambilla. Aveva 35 anni, media statura, molto muscoloso, un po’ stempiatino, occhi scuri e naso pronunciato. Simpatico, nulla da dire. Viveva ancora con i genitori poiché le “storie con le tipe” che aveva avuto lo avevano (come diceva lui) “asciugato” senza mai ben precisare cosa fosse realmente accaduto.
“Bon, le 20.00, io schiodo! Doccia, cenetta soft, seratina easy e poi branda che doma mi aspetta una giornatina pesa, cià, cià, cià Gianka!”
E’ così che mi salutava quasi sempre Richy, per gli amici il “Nerd” (letteralmente il secchione), alla fine di ogni suo allenamento. 
Ogni tanto inseriva una variante, specialmente se era la serata di Coppa Campioni e la sua squadra giocava a S. Siro.
Che macchiette questi milanesi, con i loro modi di dire, le loro usanze, le palle del Toro in galleria, il panzerotto da Luini, e soprattutto quel “dai, ci becchiamo in giro” come un appuntamento preso nel vuoto che vuol dire tutto e niente visto che la città piccola piccola non è e a volte rischi che passino anni prima di rincontrare la stessa persona. E nel mentre, in questa enorme città pullula una vita frenetica e animata che non conosce relax, tranquillità o quiete. Questa è Milano. O la ami, o la respingi. Una cosa è certa: Milano è una città all'avanguardia in continua trasformazione. La capitale italiana della Moda e del Business, versatile e sempre disposta a mutare in occasione dei grandi eventi culturali e sportivi di cui si fa spesso portavoce. E come lei mostrano flessibilità anche i suoi abitanti; schivi e meno caldi dei napoletani ma a differenza nostra dei gran lavoratori, orgogliosi ma aperti di mente, capricciosi ma accessibili e così unici da essere famosi in tutto il mondo per essere sempre di corsa a prescindere da tutto e tutti. Milano è così. Come una donna ansiogena e pulsante ma che si lascia facilmente amare e vivere. Ma chi come me è nato a Napoli prima o poi ci ritorna perché è lì che vorrà morire. E per chi non l’ha mai vista non c’è fretta, anche se dalle nostre parti si dice: “vedi Napoli e poi mori”, io sinceramente ho sempre interpretato questo suggerimento come un consiglio a visitare sia Napoli che Mori, la città subito a sud. 

Sonia

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