venerdì 16 dicembre 2016

UN ORSETTO BUBI BU PER NATALE

Mi presento: sono Bubi e faccio parte degli orsacchiotti di peluche del tipo "Bu". Noi orsetti Bu abbiamo una una pelliccia di color grigio chiaro,  il naso rosa, le orecchie grandi e una macchia bianca intorno ad un occhio. Abbiamo poi un gran pancione,  sul quale i bambini possono appoggiare la guancia per godersi la morbidezza della nostra pelliccia folta e calda. Quando un bambino si addormenta sulla pancia di un orsetto Bu, fa dei sogni bellissimi: animali, fate, maghi, luoghi incantati, prati fioriti e foreste magiche. 
Noi orsetti Bu accompagnamo da sempre i bambini attraverso i loro sogni. Ecco perché i bambini, da sempre, ci amano molto. 
Sono nato nella fabbrica di giocattoli di Babbo Natale, in un posto sperduto tra i ghiacci del Nord (vicino al Polo). Nella fabbrica di Babbo Natale lavorano gli gnomi,  insieme ai nani, ai trolls, agli elfi e alle fate che ogni anno progettano e disegnano tanti nuovi giochi da regalare a tutti i bambini del mondo. 
Quando gli gnomi Gaddo e Tina hanno finito di cucirmi le zampette e le orecchie,  mi hanno portato da Babbo Natale che mi ha detto:

- Caro Bubi, benvenuto al mondo! Tu sei l'ultimo degli orsetti Bu, come te non ce n'è più! 

- E perché? - gli ho chiesto io.
- Perché i bambini non vogliono sognare, non gli interessa più... Preferiscono altri giochi: vogliono correre sulle loro biciclette, sfidarsi con il computer, desiderano palloni con cui organizzare tornei di calcio e pallacanestro tutti insieme... Mi dispiace,  ma gli orsetti Bu non sono più richiesti. Tu sei proprio l'ultimo! 
- Ma allora io dove andrò? Da quale bambino? - ho domandato un pò triste.
-  A dire il vero, non c'è ancora un bambino che ti abbia chiesto,  ma sei stato fatto ugualmente,  per restare qui con noi e farci compagnia fino a Natale,  poi vedremo, insomma... se sei bravo e ti comporti bene, vedrò di sistemarti. Ti troverò un posto, fidati di me.
Così sono qui nel palazzo di Babbo Natale e ho un sacco di tempo per esplorarlo, guardarmi intorno, fare domande agli gnomi, a Babbo Natale, alle renne... 
Per questo tutti mi chiamano "Bubi Bu orsetto curioso".


Dovete sapere che quando i bambini, per pigrizia o perché se ne dimenticano, non spediscono la letterina di Natale, Babbo Natale lascia che siano gli gnomi a scegliere per loro un regalo. Ma anche a Babbo Natale, certe volte, capita di sbagliare. È il caso del piccolo Giovanni. 
L'anno scorso Giovanni aveva scritto la sua bella letterina, con tanto di indirizzo giusto, bella calligrafia e tutto il resto. 
Purtroppo, però, questa finì in un mucchio piuttosto sfortunato:
Quel giorno Babbo Natale aveva aperto la finestra dello studio per prendere una boccata d'aria e una folata do vento aveva sparpagliato sul pavimento tutte le letterine che stavano sulla scrivania. 
Mentre le raccoglieva, la letterina di Giovanni andò a infilarsi proprio sotto il comò e lì rimase fino a quando l'elfo maggiordomo non la trovò intorno a Pasqua, il momento in cui, anche al palazzo di ghiaccio, so fanno le grandi pulizie. 
L'elfo la mostrò a Babbo Natale che, un pò mortificato per la sua distrazione, la mise in un cassetto deciso a rimediare l'anno successivo. 
Quel Natale fu un pò una delusione per Giovanni, che sotto l'albero trovò gli scacchi, un gioco difficile al quale non aveva mai giocato e per il quale non provava alcun interesse. 
Giovanni è un bambino piuttosto paziente. E, poiché sapeva di aver combinato qualche guaio e di aver detto qualche piccola bugia, non la prese troppo male: si tenne i suoi scacchi e si riprese dalla delusione con la calza della Befana, che trovò bella gonfia di dolciumi e prelibatezze. 
Quest'anno a Babbo Natale è arrivata una lunga letterina di Giovanni, nella quale il bambino racconta di aver ricevuti, il Natale passato,  un regalo che non aveva mai chiesto e domanda se per favore, ora può avere il suo orsetto Bu da stringere,  coccolare ed accarezzare per addormentarsi.  
- Ma csrto! - si è come illuminato Babbo Natale. - Ecco perché ho fatto fare Bubi Bu a Gaddo e Tina! C'era un motivo, anche se lì per lì non lo ricordavo...Quella letterina smarrita sotto il comò. Giovannino!
Babbo Natale è proprio contento di poter rimediare all'errore fatto e non vede l'ora di dirlo a Bubi,  che ultimamente sembra così triste e sconsolato.
Così lo fa chiamare subito nel suo studio.
- Carissimo Bubi, hi una gran bella notizia per te, reggiti forte... - gli dice Babbo Natale con un gran sorriso soddisfatto,  mentre a Bubi, che non ci sperava più (ma invece ci spera ancora),  brillano gli occhi. - Ti ho trovato casa e famiglia!
- Davvero? - Bubi non sta più nella pelliccia per la contentezza. - E dove vado? E chi è il mio bambino? E....e...come si chiama? Quanti anni ha? Va a scuola? Ce l'ha una nonna?
- Piano, piano, piano! - lo interrompe Babbo Natale. - Quante domande! Lo sai che non si dicono tutte queste cose a voi giocattoli.  Ognuno entra nella sua scatola e parte. Tu sei troppo curioso...
Ma poi , siccome Babbo Natale ha visto che l'orsetto Bubi c'è rimasto un po' male, aggiunge:
- Per adesso ti basti sapere che il tuo bambino si chiama Giovanni e ti aspetta da diverso tempo.
Bubi Bu è felicissimo,  salta come un matto da una parte all'altra dello studio di Babbo Natale,  lo abbraccia e lo bacia,  si affaccia alla finestra e urla verso il bosco:
- Parto! Parto anch'io! Salgo sulla slitta insieme agli altei giochi!  Vado da Giovanni!
Proprio in quel momento passa la Befana in volo sulla sua scopa che gli risponde:
- Buona fortuna Bubi Bu! Buon Natale! Ci vediamo presto sotto il camino! Di a Giovannino di lasciare un biscottino anche per me!

Tratto da Il mio libro di Natale
Elisa Prati
Guunti Junior

mercoledì 7 dicembre 2016

PUPAZZO DI NEVE CON TAPPI DI PLASTICA

Sono molto orgogliosa di questo progettino di riciclo creativo.
La realizzazione è, come di consueto, facile e veloce ma il risultato è un oggettino veramente carino.

MATERIALE NECESSARIO:
- 4 tappi di plastica bianchi preferibilmente un po' più grandi di quelli delle bottiglie normali, quindi per esempio quelli dello yogurt da bere e possibilmente due di diametro leggermente diverso;
- 1 coperchio di plastica bianco abbastanza grande;
- 1 capsula di caffè lavata e svuotata;
- Nastrino o lana;
- Perlina allungata arancione.

Per il cartello "polo nord":
- Cartoncino e pennarello nero;
- Stecco di ghiacciolo;

Per l'alberello:
- Lana verde;
- Stecco di legno sottile;

Per il porta-messaggio:
- Mollettina di legno;
- Stecco di ghiacciolo;

PROCEDIMENTOAttaccare tra loro con la colla caldo due tappi per creare il corpo del pupazzo e due per la testa, quindi incollare insieme le due parti appena create.
Incollare la capsula in alto per rappresentare il cappello.
Creare con un nastrino e della lana intrecciata la sciarpa.
Disegnare occhi e bottoni e attaccare una perlina oblunga come naso.
Incollare il pupazzo di neve alla base rappresentata dal coperchio.
Con il cartoncino e lo stecco creare il cartello "polo nord" (se avere a disposizione una stampante stampate la scritta altrimenti scrivetela con il pennarello) oppure incollare una mollettina su uno stecco. Praticare con un cutter un piccolo taglio sulla base per infilare il lavoro finito.
Per fare l'abete di lana si devono creare tre pon-pon di diametro differente, infilare nel mezzo il legnetto e modellare con le forbici.  Un po' di colla a caldo aiuterà a tenere ferme le parti.
I tre pon-pon si creano attorcigliando la lana intorno alle dita e annodando al centro per poi tagliare le estremità. La base si fa attorcigliando la lana su quattro dita, l'intermedio su due e la parte alta su una.

Spero che questo lavoretto vi piaccia quanto a me.

THINK GREEN & MERRY CHRISTMAS! 

Denny 

lunedì 5 dicembre 2016

L'ORGANO PIÙ ANTICO DELLA PUGLIA - SALVE (LE) by Giuliana


L'Organo più Antico di Puglia, e, tra i quattro più importanti d'Europa è ubicato a Salve (Lecce).
Sulla pensile cantoria della splendida parrocchiale in stile barocco leccese di Salve, si conserva un organo che, come si legge dall'iscrizione incisa sullo stagno della canna centrale, fu costruito nel 1628 da Giovane Batista Olgiati di Como con Tomaso Mauro di Muro. L'organo di Salve è certo il più antico tra quelli funzionanti in Puglia, grazie al restauro operato nel 1978 sotto la consulenza tecnico-artistica del Maestro Luigi Celeghin del Conservatorio S. Cecilia di Roma. 
In effetti il più antico organo pugliese sopravvissuto, ma inefficiente e bisognoso di restauri, si trova nella cattedrale gotica di Santa Caterina a Galatìna (Lecce) ed è datato 1558. Ciò non sminuisce tuttavia l'importanza dell'organo di Salve grazie alla singolare compresenza di scuole organarie che esso rappresenta, come spiega la studiosa casaranese Elsa Martinelli in un breve ma significativo saggio apparso su un opuscolo locale a periodicità annuale. 
Nell'organo 'Olgiati-Mauro' (questo è ormai il suo nome ufficiale) si trovano infatti a confrontarsi ed a fondersi insieme la scuola organaria lombarda (ed in particolare antegnatiana) grazie all'opera del comasco Giovan Battista Olgiati , e quella salentina, rappresentata da Tommaso Mauro da Muro Leccese, ove probabilmente il primo si occupò prevalentemente della parte più specificatamante musicale (le canne) ed il secondo della parte strutturale, la cassa, la tastiera, la pedaliera, i mantici, i registri, ecc., insomma tutto quello che concerneva il lavoro di falegnameria. 
Difficile seguire le orme di questo singolare personaggio che è Olgiati (a lui è dedicata una via a Sagnino), infatti le notizie sulla sua vita sono piuttosto scarse. Pare fosse nato attorno al 1600 da Francesco, organaro di cui il nostro fu allievo e collaboratore. Le fonti - dice Martinelli - registrano una produttività documentata tra 1624 e 1649. Al 1624 risale infatti la costruzione dell'organo della matrice di Galàtone (Lecce), a lui attribuito e, purtroppo, perduto. Olgiati soggiornò in quella cittadina dal 1623 al 1628, come testimoniano i registri dei battezzati che lo vedono spesso come padrino. Ciò dimostra la considerazione, la stima ed il successo personale che si era guadagnato. Insomma, Olgiati si era perfettamente integrato nella vita sociale e lavorativa del Salento di allora. 
La permanenza in loco e la collaborazione con Mauro, smentiscono non solo il fatto che l'organo fosse stato fabbricato a Como, ma anche la suggestiva leggenda locale secondo cui l'organo, fabbricato a Como, fosse destinato ad un altro luogo. 
Dal 1628  (anno di costruzione dell'organo di Salve) al 1642, non si hanno altre notizie. 
Nel 1642 Olgiati è già tornato a Como, dove è impegnato coi lavori di ampliamento all'organo del Duomo; ed ancora nel 1647 per una nuova revisione dello stesso, in collaborazione con un organaro fiammingo, il gesuita Willem Hermans, col quale collaborò nuovamente negli anni 1649-50 nella costruzione del nuovo grande organo (oggi perduto) della Cattedrale di Como. 
Nel 1654 Olgiati era già morto. 
L'organo, costruito dai due maestri su commissione del presbitero Francesco Maria Alamanni, dopo oltre tre secoli e mezzo di vita, conserva quasi del tutto intatte la propria originale fisionomia e le antiche sonorità, per non aver conosciuto nel tempo modifiche sostanziali, salvo un presumibile importante intervento di ripristino (stando alla spesa sostenuta, col patrocinio finanziario delle confraternite, per una somma di 140 ducati intorno ai primi decenni del XVIII secolo. 
Attorno al 1918 furono sostituite tastiera e pedaliera, sul finire degli anni  '50 fu posto in disuso, e finalmente restaurato nel 1978 dalla ditta La Frescobalda di Varsi. L'organo di Salve è, quindi, una ulteriore testimonianza sia del flusso migratorio Nord-Sud (esatto contrario di quello attuale!), sia dell'unificazione culturale ed artistica  d'Italia agli albori del Barocco. 
E' 'luogo' dove Nord e Sud, grazie all'arte, alla musica, all'abilità artigiana, si incontrano non per respingersi, ma per integrarsi. Se poi, a tutto questo si aggiunge che le portelle, ora perdute, dell'organo 'Olgiati-Mauro' erano state dipinte nel 1630 da un tal Nicolaus Ricciardus di Lotaringia (l'attuale Lorena in Francia), si ha un'idea ancor più ampia dei contatti culturali dell'epoca, per non parlare dell'universalità dell'arte, della sua funzione aggregatrice di dimensione europea!

UbicazioneL'organo è ubicato sulla cantoria laterale sinistra rispetto alla navata.

DescrizioneCassa indipendente in legno con facciata traforata inserita in lesene angolari e divisa in cinque campate da sei lesene interne terminanti con capitelli che reggono archetti. In ogni campata c'è un fascio di canne, ed organetti morti (canne superiori) nelle campate pari. Il fregio è sormontato da un timpano triangolare spezzato al cui centro troneggia un ovale raggiato con la sigla IHS. Decorazione in oro su fondo bianco.

Leggende sull'Organo di Salve.
Sull'organo Olgiati-Mauro di Salve si sono tramandate due distinte leggende aventi per tema l'arrivo in quel paese del suddetto organo.
La prima è meno interessante riferisce che l'organo, scaricato a Taranto da una nave proveniente dalla Liguria, sarebbe stato destinato a Sava (Taranto) e non a Salve, dove invece sarebbe arrivato a causa di una errata lettura del nome o per una manovra ben riuscita ad opera di un qualche carrettiere.
La seconda racconta che... C'era una volta un galeone, con a bordo un magnifico organo fabbricato a Como dal maestro Olgiati. Era salpato dalla Liguria ed era probabilmente diretto ad Alessandria d'Egitto... Come d'uso a quei tempi la navigazione avveniva quasi sempre sotto costa con frequenti scali per il rifornimento. La nave doveva aver quindi costeggiato l'Italia dalla Liguria, ed attraversato lo stretto di Messina, aveva costeggiato il golfo di Taranto. Ma, navigando lungo la costa ionica della penisola salentina, prima di giungere a Santa Maria di Leuca per la traversata del Canale d'Otranto fino in Grecia, la nave fu colta da una tremenda tempesta.  La furia del mare trascinò la nave fin sopra le Secche di Ugento, tristemente famose fin dall'antichità. Il mare in burrasca rovesciò il bastimento, ed i marinai annegarono. I mezzi di allora non consentivano il salvataggio durante la tempesta, ed era necessario attendere che il mare si placasse. I pescatori di Torre Pali, la marina di Salve, osservavano impotenti dalla costa la tragedia che si stava consumando davanti ai loro occhi. Appena fu possibile, i pescatori accorsero sul posto nella speranza di trovare qualche superstite. Sul relitto incagliato del galeone non c'era nessuno, ma nella stiva invasa dall'acqua penetrata da una grossa falla, c'erano ancora alcune casse. Quando le aprirono trovarono le canne di un organo, e poichè la chiesa del loro paese era priva di un organo, decisero di prenderle. Caricate le casse sulle loro barche le portarono a riva, e da qui  in Paese. Poichè la notizia del prezioso carico era già giunta in paese, gli abitanti si affollarono sulle mura ad attendere il carico. Quando il carro attraversò Porta Terra e giunse nella piazza principale, l'accoglienza fu trionfale. Le autorità religiose e civili plaudirono a quell'insolito salvataggio e fu stabilito che l'organo fosse immediatamente montato nella chiesa matrice, e da allora il suo suono melodioso incanta chi lo ascolta. 
Volendo attribuire a tutti i costi un fondo di verità alla leggenda, pare più logico ritenere che Olgiati,  in viaggio per l'Oriente coi suoi attrezzi, fosse capitato nel Salento in seguito ad un naufragio e vi si fosse trattenuto per qualche anno, mettendo a frutto il suo mestiere. Ma questo servirebbe solo a dare una spiegazione, non del tutto plausibile, sulla presenza di Olgiati in Terra d'Otranto, o sulle motivazioni del suo viaggio.
(C. Stasi)

Giuliana

venerdì 2 dicembre 2016

BERLIN - FABIO GEDA & MARCO MAGNONE

Il consiglio di lettura di questo venerdì si ricollega a quello della settimana scorsa perché anche questo è un romanzo che rientra nel genere fantascienza, più precisamente di tipo ucronico.
"L'ucronia (anche detta storia alternativa, allostoria o fantastoria) è un genere di narrativa fantastica basata sulla premessa generale che la storia del mondo abbia seguito un corso alternativo rispetto a quello reale" (cit. Wikipedia)
Un romanzo ucronico è un romanzo che racconta eventi coerenti a una realtà ipotetica, quindi non veritiera ma possibile, e spesso negativa.

Berlin è una serie di romanzi scritti da Fabio Geda (NdA: avevo già consigliato un suo romanzo ---> L'estate alla fine del secolo)  e Marco Magnone, pubblicati da Mondadori e destinati ad un pubblico giovane (da 12 anni circa).
La serie conterà alla fine 7 libri (uscite scadenziate semestralmente a marzo e settembre) ma per ora ne sono stati pubblicati solo 3.
Il primo si intitola "I fuochi di Tegel" ed è quello che ho appena finito di leggere.
In questo primo romanzo viene presentata la situazione e i personaggi principali ma lascia anche tante domande aperte che sicuramente troveranno risposte nei sequel.
Il modo alternativo ricreato molto abilmente nelle 200 pagine che compongono il romanzo è datato 1978, è collocato nella città di Berlino ed è popolato solo da bambini e adolescenti visto che, due anni prima, un virus letale ha eliminato tutti gli adulti e impedisce di arrivare all'età adulta.
La città è una città in rovina, senza elettricità e senza regole. 
I ragazzi si sono divisi in gruppi, bande, tribù, spesso rivali e sopravvivono come possono.
Il rapimento di un bambino "figlio della morte" cioè nato dopo l'inizio dell'epidemia è l'innesco per tutta l'avventura del libro.
"I fuochi di Tegel", come immagino anche quelli a seguire, è un romanzo veloce, scorrevole, facile ma interessante e ricco di spunti di riflessione.
Si può contestare che alcuni elementi della trama non sono originalissimi e che sia forte il richiamo a altri romanzi nuovi e vecchi (nel caso de "il signore delle mosche" di Golding è un evidente tributo) ma come chiede lo stesso autore in un commento sparso nel web trovato durante le mie ricerche: "Qualunque storia di amori contrastati è inutile perché tanto c'è già Giulietta e Romeo?".
Berlin racconta cose magari "già sentite" ma a modo suo e indirizzate a un pubblico più giovane.

Se cercate un buon libro da regalare per Natale ad un adolescente, forse l'avete trovato!

Sito ufficiale della serie: http://www.berlin-libro.it

(Non è un semplice sito promozionale ma ha tanti contenuti extra e materiale per laboratori scolastici.)


I primi tre titoli della serie BERLIN sono:

1 - I fuochi di Tegel
2 - L'alba di Alexanderplatz
3 - La battaglia di Gropius

Denny

Questo articolo partecipa al Venerdì del libro su HomeMadeMamma

mercoledì 30 novembre 2016

ALBERELLO CON TAPPI SUGHERO

La piccola decorazione natalizia che vi propongo oggi è, come al solito, facile, veloce ed economica. Io l'ho creata semplice  semplice, ma può essere abbellita secondo la propria fantasia.

MATERIALE NECESSARIO:
- n.11 tappi di sughero;
- nastrini o lana;
- 2 stelle di gomma o cartone;
- uno spillo;
ornamenti vari a piacere;
colla a caldo.

PROCEDIMENTOCon la colla a caldo incollate i tappi in modo da create un alberello. Potete aumentare il numero dei tappi della base secondo le vostre esigenze. Per l'alberello nella foto sono stati usati 7 tappi di base, 3 nel secondo livello e 1 per la cima.
Avvolgete intorno nastri oro o rosso e decorate a piacere. (Io ho usato una treccia di lana rossa).
Per la stella in alto prendete due stelle di gomma adesiva o di cartone e unitele tra loro collocando nel mezzo uno spillo che poi va infilato nel tappo più in alto.

Et voilà. Un po' di Natale da appoggiare dove volete.
THINK GREEN & MERRY CHRISTMAS ! 

Denny

martedì 29 novembre 2016

MANUALE DEL GUERRIERO DELLA LUCE (Prologo) - Paulo Coelho



“Nella spiaggia ad est del paese c’è un’isola sulla quale sorge un gigantesco tempio con tante campane.” disse la donna.
Il bambino notò che lei indossava strani abiti e che un velo le copriva i capelli. Non l’aveva mai vista prima.
“Hai mai visto questo tempio?” gli domandò lei. “Vai fin laggiù e dimmi cosa ne pensi.”
Affascinato dalla bellezza della donna, il bambino si recò nel luogo indicato. Si sedette sulla spiaggia e guardò l’orizzonte, ma non vide null'altro se non quello che era solito vedere: il cielo azzurro e l’oceano.
Deluso, si avviò verso un gruppo di case abitate da pescatori e domandò loro di un’isola con un tempio.
“Si, c’era, ma tanto tempo fa, quando qui vivevano i miei bisnonni.” Disse un vecchio pescatore. “Poi ci fu un terremoto, e l’isola sprofondò nel mare. Eppure, anche se non possiamo più vedere l’isola, riusciamo ancora a sentire le campane del suo tempio, quando il mare le fa ondeggiare, laggiù sul fondo.”
Il bambino ritornò alla spiaggia, e aspettò di udire le campane. Vi passò tutto il pomeriggio, ma riuscì a sentire soltanto il rumore delle onde e le strida dei gabbiani.
Quando giunse la sera, i suoi genitori andarono a prenderlo. Il mattino dopo, il bambino tornò alla spiaggia. Non poteva credere che una donna così bella potesse raccontare delle bugie. Se un giorno lei fosse tornata, avrebbe potuto dirle di non aver visto l’isola, ma di aver udito le campane del tempio, che rintoccavano per il movimento dell'acqua.
Così trascorsero alcuni mesi. La donna non tornò, e il ragazzino la dimenticò. Adesso era intenzionato a scoprire le ricchezze ed i tesori del tempio sommerso. Se avesse udito le campane, avrebbe potuto localizzarlo e recuperare il tesoro nascosto.
Ormai non lo interessavano più né la scuola né la combriccola di amici. Si tramutò nel divertimento preferito degli altri bambini, che solevano dire: ”Lui non è più come noi. Preferisce starsene a guardare il mare, perché ha paura di perdere quando giochiamo.”
E, vedendo il bambino seduto in riva al mare, tutti ridevano.
Benché non riuscisse a sentire le campane del tempio, il bambino apprendeva ogni giorno cose diverse. Si accorse che, dopo aver ascoltato a lungo il rumore delle onde, lo sciabordio non lo distraeva più. Passò qualche tempo, e si abituò anche alle strida dei gabbiani, al ronzio delle api, al vento che sibilava tra le palme.
Sei mesi dopo l’incontro con la donna, il bambino era ormai capace di non lasciarsi distrarre da nessun rumore. Ma le campane del tempio sommerso non le aveva ancora udite.
Alcuni pescatori andarono a parlare con lui, e insistevano. “Noi le abbiamo udite!” dicevano. 
Ma il ragazzino continuava a non sentirle.
Qualche tempo dopo, i pescatori cambiarono tono: “Sei troppo concentrato sul suono delle campane laggiù. Lascia perdere, e torna a giocare con i tuoi amici. Forse soltanto i pescatori riescono a sentirle.”
Dopo quasi un anno, il bambino si disse: “Forse hanno ragione loro. E’ meglio crescere, diventare pescatore e tornare tutte le mattine su questa spiaggia, perché ho cominciato ad amarla.” E pensò anche: “Forse è soltanto una leggenda. Con il terremoto le campane si sono spaccate e non rintoccheranno mai più.”
Quel pomeriggio decise di tornare a casa.
Si avvicinò all'oceano per congedarsi. Guardò ancora una volta lo spettacolo della Natura, e allora, siccome non era più concentrato sulle campane, poté sorridere al canto dei gabbiani, al rumore del mare, al vento che sibilava tra le palme. Sentì in lontananza la voce dei suoi amici che giocavano, e si rallegrò al pensiero che ben presto sarebbe tornato ai giochi dell’infanzia.
Il bambino era contento. E, come soltanto un bambino sa fare, ringraziò di essere vivo. Sapeva di non aver perduto il proprio tempo, poiché aveva appreso a contemplare e a rispettare la Natura.
A quel punto, sentendo il mare, i gabbiani, il vento, le foglie delle palme e le voci degli amici che giocavano, udì anche la prima campana.
E un’altra.
E poi un’altra ancora, finché tutte le campane del tempio sommerso rintoccarono, riempiendolo di gioia.
Anni dopo, ormai adulto, ritornò al paese e alla spiaggia dell’infanzia. Non voleva più recuperare alcun tesoro in fondo al mare: forse era stato solo un frutto della sua fantasia, forse non aveva mai udito le campane sommerse in quel lontano pomeriggio della sua infanzia. Decise comunque di passeggiare sulla spiaggia, per ascoltare il rumore del vento e le strida dei gabbiani.
Fu profondamente sorpreso nel vedere, seduta sulla sabbia, la donna che gli aveva parlato dell’isola con il tempio.
“Che cosa fai qui?” le domandò.
“Aspettavo te.” Rispose lei.
Lui notò che, sebbene fossero passati tanti anni, la donna aveva ancora lo stesso aspetto: il velo che le copriva i capelli non sembrava affatto sgualcito dal tempo.
Lei gli porse un quaderno azzurro, con le pagine bianche.
“Scrivi: ‘Un guerriero della luce presta attenzione agli occhi di un bambino. Perché quegli occhi sanno vedere il mondo senza amarezza. Quando desidera sapere se chi sta al suo fianco è degno di fiducia, cerca di vedere la maniera in cui lo guarda un bambino.’
“Che cos'è un guerriero della luce?”
“Credo che tu lo sappia.” rispose lei, sorridendo. “E’ colui che è capace di comprendere il miracolo della vita, di lottare fino alla fine per qualcosa in cui crede, e di sentire allora le campane che il mare fa rintoccare nel suo letto.”
Lui non si era mai ritenuto un guerriero della luce. La donna parve indovinare il suo pensiero: “Di questo sono capaci tutti. E nessuno ritiene di essere un guerriero della luce, benché in effetti lo sia.”
Lui guardò le pagine del quaderno. La donna sorrise di nuovo.
“Scrivi.” disse lei infine.

Paulo Coelho

lunedì 28 novembre 2016

TROZZELLA: il culto dell'oppio e l'acqua dell'oblio in Messapia by Giuliana

La trozzella è una tipica anforetta messapica che comparve nel VI sec a.c. e scomparve nel III sec a.c .
Ha un corpo ovoidale, un po' ristretto nella parte inferiore, con asole nastriformi che terminano con quattro rotelle.
Questo tipo di vasellame è stato ritrovato anche nel barese, di produzione peuceta (indigeni del barese). Ceglie peuceta lo aveva come simbolo su una moneta.
Il fatto che i ritrovamenti più numerosi di trozzelle siano avvenuti nel Salento ha fatto presupporre che la trozzella sia una tipicità messapica che influenzò peuceti e lucani, tesi questa non accettata da tutti. Ai fini di questi studi non ha importanza la sua origine ma il suo significato.
Il nome trozzella le venne dato perché agli occhi degli studiosi salentini le asole sembravano quattro ‘trozze', termine dialettale per indicare le carrucole dei pozzi. Da qui nacque la fantascientifica ipotesi che i messapi costruivano recipienti.
Le trozzelle avevano uno scopo solo funerario, destinate al corredo funebre di donne di un certo rango o sacerdotesse. Il fatto che i peuceti le abbiano associate nelle monete ad Atena, fa intuire che esse avevano una simbologia sacra, qualcosa a che fare con la medicina della quale Atena era anche patrona, è da escludere la guerra e la saggezza per il fatto che erano destinate solo alle donne.
La produzione più antica di trozzelle era a figure geometriche, per cui il nastro ed i dischetti dei manici dovevano essere una stilizzazione di qualcosa di ben preciso per caratterizzare la funzione sacra dell'anfora. I nastri fanno pensare ad una raccolta, ad un fascio di qualcosa, erbe mediche o piante, ciò è confermato dal fatto che la seconda produzione aveva disegni vegetali, soprattutto edere che si avvolgevano lungo i nastri.
Poi iniziarono a comparire scene acquatiche, oche, rane, tutti simboli della dea Japigia della palude alla quale, sappiamo, era associato il culto dell'oppio.
Guardando le trozzelle frontalmente, notiamo che i manici formano due gambi messi in obliquo con questi pon pon finali, uno all'insù, l'altro all'ingiù.
Per poter capire questa stilizzazione dobbiamo confrontarci con la grafia dei popoli vicini, visto la risonanza che ebbe la trozzella in Puglia e Basilicata e tenendo conto che prima dell'invasione di genti ‘pelasgiche' eravamo un'unica etnia.
La stessa grafia degli steli con pon pon, messi alcuni a testa all'ingiù, la troviamo nelle stele dauniche proprio nello stesso periodo della comparsa della trozzella, VI sec ac.
Le scene parlano del culto dell'oppio intorno alla dea delle acque, gli steli con i pon pon rappresentano la raccolta e l'essiccazione delle capsule di oppio.
Inoltre dal confronto degli studi fatti sulla stilizzazione della capsula di oppio nell'archeologia notiamo che tutti i simboli disegnati sui dischetti della trozzella rientrano nella stilizzazione della capsula dell'oppio vista dall'alto.
Anche la forma ovoidale della trozzella sembra stilizzare la capsula d'oppio, il problema è che nell'antichità quando un contenitore richiama la forma di una particolare pianta era destinato a conservare solo quella determinata pianta o la sua essenza, mentre le trozzelle erano destinate a contenere acqua per il fatto che l'anfora sua discendente, ancora oggi prodotta in plastica per i contadini, è destinata alla raccolta d'acqua e viene ancora oggi chiamata menzana o minzana, come il dio messapico romano dell'acqua e della pioggia.
L'unica spiegazione è che simboleggiasse quell'acqua che greci e romani chiamavano ‘Lete', l'acqua dell'obblio, l'acqua del fiume che conduceva all'aldilà che nel culto di Asclepio era anche l'acqua della guarigione. Il fenomeno del tarantismo che ha caratterizzato proprio la Puglia è stato da molti associato ai riti di incubazione dei sogni di Asclepio.
I riti di incubazione dei sogni sono antichi come l'uomo. La prima testimonianza scritta la troviamo nell'epopea sumera di Gilmanesch, infatti in alcuni disegni sumeri compare questo eroe con il suo compagno di avventura con tre papaveri in mano. Sembra proprio l'oppio essere la sostanza usata in questi riti, probabilmente miscelata con altre sostanze per ottenere visioni o uscite fuori dal corpo.
Guardando la trozzella come l'oggetto sacro per raccogliere l'acqua di ‘lete', o meglio, trovandoci in Salento dovremmo chiamarla ‘l'acqua di Tarana' ed associandola alla guarigione ed ai culti di incubazione dei sogni, ci spieghiamo le scene di epopea che compaiono nell'ultima produzione di trozzelle, quelle ellenizzate.
Le trozzelle con i dischetti scompaiono nel III sec a.c. , proprio quando i Messapi, Peuceti e Dauni vennero assoggettati dai greci. Questo perché cambiò il rito di incubazione dei sogni. Questi si spostarono verso la figura di Asclepio e la dea della palude si trasformò nel dio Menzana pluvium.
Si potrebbe, quindi, ribattezzare le trozzelle in le "anfore dell'oblio".

Giuliana 

venerdì 25 novembre 2016

QUALCOSA, LÀ FUORI - BRUNO ARPAIA (Il futuro del mondo nei libri)

Ho finito di leggere da pochi giorni il romanzo “Qualcosa, là fuori” e ancora ci penso.
E’ uscito in aprile per l’editrice Guanda ed è stato scritto da Bruno Arpaia.
Il filone a cui si ascrive è quello della narrativa di anticipazione, sottogruppo del genere fantascientifico.
In questo tipo di romanzo l’autore ipotizza il futuro e crea una storia e dei personaggi coerenti con esso. Spesso tra le righe si cela una netta denuncia alla società attuale.
In “Qualcosa, là fuori” siamo nella seconda metà del XXI° secolo e il mondo è una landa inaridita dove gli oceani sono estremamente acidi, le città sono in rovina e tutti i sistemi civili sono saltati.
Tutte le estreme conseguenze dell’effetto serra e dei cambiamenti climatici hanno trasformato il mondo intero e innescato migrazioni di massa.
La storia ruota intorno a Livio, un sessantenne, che, insieme a centinaia di disperati, parte dall’Italia e cerca di raggiungere la Groenlandia, l’unica terra dove il clima è ancora sopportabile.
Il viaggio, a piedi, per quanto organizzato e strapagato, è irto di pericoli (malattie e bande di predoni in primis).
La narrazione viaggia su due binari: il viaggio della speranza è inframmezzato da continui flashback (forse un tantino troppi e troppo repentini a mio giudizio) che spiegano la storia personale del protagonista e la storia dell’involuzione mondiale.
Viene raccontato come l’aumento delle temperature, il surriscaldamento globale, l’innalzamento degli oceani, la siccità e altri estremi climatici modificano gli equilibri mondiali.
Il lettore è condotto in un viaggio nel tempo che parte dall’iniziale sottovalutazione del problema, al punto di non ritorno, fino alle estreme conseguenze.
In questo romanzo il passato che rivive è il nostro presente con l’attuale forma di “negazionismo” dei rischi climatici. (NdA: Ho letto recentemente questo articolino di Michele Serra che lo spiega meglio di me: l'amaca del 03/11/2016) --->
Il presente narrativo, invece, è il nostro futuro dove i migranti siamo noi.
E poi si intravede un futuro di definitiva rovina.
Con rigore scientifico e attraverso scenari plausibili, nel romanzo, vengono ripercorse le tappe della catastrofe climatica a partire dall’oggi, viste dagli occhi di persone comuni.
Nella narrazione si trovano anche considerazioni su mezzi d’informazione, cultura e sociologia.
Qualcosa, là fuori” è un libro cupo e disperato ma anche interessante e scorrevole che vuole mettere in luce i pericoli che corre il nostro pianeta se non si trova il modo di riparare ai danni che allo stesso abbiamo causato.
E’ un semplice romanzo ma fa pensare e lascia il lettore con una domanda da brivido: “il punto di non ritorno l’abbiamo già superato?”.

I libri del filone “narrativa di anticipazione” e/o “post-apocalittico” difficilmente ipotizzano un ritorno al paradiso dell’Eden, ma, anzi, non immaginano niente di buono per il nostro sconclusionato piccolo mondo rotondo.
Rientrano in questo genere letterario alcuni romanzi, considerati ormai dei classici, che tutti dovrebbero aver letto, e altri più recenti ma altrettanto interessanti.
Di seguito elenco alcuni di questi romanzi che ho letto (di tutti ne è stato tratto anche un film).

  • 1984 – Orwell (Imprescindibile! Perché il termine “grande fratello” non l’ha inventato la televisione!)
  • I figli degli uomini – P.D. James (e se al mondo non nascessero più bambini?)
  • La strada – Mc Carthy (Post-apocalittico per eccellenza)
  • Hunger GamesSusanne Collins (più recente e per ragazzi ma non privo di aspetti interessanti)
Buona lettura… e buona riflessione.

Denny

Questo articolo partecipa al Venerdì del libro su HomeMadeMamma

giovedì 24 novembre 2016

PRESENTAZIONE DEL LIBRO "CAINO" di ELISABETTA CAMETTI

Sarà presentato venerdì 25 novembre, alle ore 21.00, presso l’Auditorium Lux di Gattinara, il nuovo romanzo di Elisabetta Cametti “CAINO”.
Nel nuovo thriller sempre pubblicato da Cairo Editore, a un anno dal lancio de “Il Regista”, l’autrice propone il secondo capitolo della serie 29, che ha come protagonista la fotoreporter Veronika Evans.


mercoledì 23 novembre 2016

GHIRLANDA NATALIZIA CON CAPSULE CAFFÈ

Ecco un lavoretto di Natale facile ma d'effetto.

MATERIALE NECESSARIO:

- 1 coperchio di plastica trasparente grande recuperato da una confezione alimentare (es. mozzarelle);
- varie capsule caffè color oro svuotare, lavate e schiacciate (basta usare un pesta-carne);
- 1 bel disegno natalizio su cartoncino (recuperato da biglietti d'auguri ricevuti negli anni passati);
- colla a caldo;
- nastrino per appendere;
- nastro rosso per fiocco.

REALIZZAZIONE:

Tagliate a misura il disegno e inseritelo nel coperchio incastrandolo ai bordi e/o fissandolo con un goccio di colla. Fate un buchino all'apice del coperchio e inserire il nastrino che servirà per appendere la ghirlanda. Incollate con la colla a caldo tutte le cialde necessarie, in modo regolare o irregolare a vostro gusto, in modo da creare un cerchio dorato che incornici il disegno.
Create un fiocco con il nastro rosso e incollatelo sul davanti nella parte bassa.

Ecco fatto! La vostra reciclosissima ghirlanda natalizia è pronta per essere un originale fuori porta.

THINK GREEN & MERRY CHRISTMAS.

Denny 

lunedì 21 novembre 2016

VERETO E I MESSAPI by Giuliana

Vereto, centro messapico identificato con la mitica Hyrie (la città madre della Iapigia secondo lo storico greco Erodoto), sorgeva su un altopiano a 140 metri s.l.m., lungo il percorso della via Sallentina. La posizione strategicamente ottimale permetteva ai suoi abitanti di controllare l’intera pianura sottostante che da Torre Vado si stende sino a Santa Maria di Leuca e un’ampia area compresa tra gli odierni centri urbani di Montesardo e Castrignano del Capo
Le ricerche archeologiche e i rinvenimenti fortuiti, effettuati nel territorio, hanno consentito di ricostruire la sua articolata storia insediativa d’età iapigio-messapica, a partire dalla prima età del Ferro fino alla romanizzazione del Salento, quando la città divenne municipium.
La presenza di ceramica d’impasto dell’età del Ferro e il rinvenimento di resti di capanne attestano una frequentazione a partire dal IX sec. a.C. La fase arcaica è documentata da frammenti di ceramica di produzione locale e da alcune iscrizioni in lingua messapica, incise su cippi in calcare provenienti da contesti funerari.
In età ellenistica l’area dell’insediamento venne cinta da mura in grandi blocchi isodomi di calcare. Il tratto maggiormente conservato è visibile, per un’altezza massima di quattro filari, in corrispondenza del limite sud-occidentale dell’abitato antico. I blocchi di calcare sono messi in opera alternativamente di testa e di taglio, secondo una tecnica costruttiva già nota in ambito messapico. Alcune indagini archeologiche, effettuate lungo la via vicinale Usca Pagliare, hanno riportato alla luce parte delle imponenti fondazioni della cinta muraria. Si tratta di un muro pieno largo circa 4 metri, costituito da tre file di blocchi squadrati posti di testa e di taglio; lo spessore e la lunghezza dei blocchi risultano costanti (m. 0,32 x 1,57), la larghezza varia dai m. 0,90 dei blocchi di taglio ai m. 0,50 dei blocchi di testa. Le mura cingevano una superficie di 145 ettari, al cui interno si sviluppavano nuclei di abitato alternati a zone libere, destinate all’agricoltura e al pascolo.
Nell’area archeologica veretina si rinvengono numerosi blocchi, spesso riutilizzati nei muri a secco, e strutture ancora parzialmente interrate, che potrebbero appartenere a edifici messapici costituiti dai tipici ambienti a pianta quadrangolare con fondazioni in blocchi squadrati, alzato in spezzoni lapidei e copertura in tegole.

I MESSAPI
Un popolo veramente misterioso, questi Messapi. Non si sa innanzitutto da dove siano giunti. Secondo alcuni sono una popolazione dell’Illiria, altri sostengono siano comunque un popolo ellenico, altri ancora, basandosi sui riscontri letterari, sostengono siano Cretesi, come dimostrerebbe la loro modalità civilizzatrice per così come si sviluppò nel Salento.
Ciò che è certo è che furono un popolo estremamente religioso, attaccato al culto dei defunti in maniera così devota da conferire alle proprie massime due divinità, Tiotor Andrilao e Bama, il dominio dei cieli, del mare e dell’oltretomba.
Le testimonianze archeologiche che nel Salento rimangono dei Messapi riguardano infatti il particolare modo col quale questi usavano seppellire i propri morti, in enormi sarcofagi di carparo, come quelli che sono conservati nel museo civico di Gallipoli. L’inumazione, pratica funeraria già diffusa nel Salento in epoca pelasgica, fu dai messapi riadoperata secondo canoni tipicamente indoeuropei: all’interno dei sarcofagi, molto grezzi e squadrati, essenziali nella forma come nel messaggio di eternità che da essi doveva promanare, era inciso il nome del defunto, che veniva sepolto con tutte le suppellettili che gli sarebbero state utili nel regno dei morti. I guerrieri ed i re, venivano sepolti con indosso le loro armature, le spade, le trozzelle istoriate con figure prevalentemente geometriche e con gli amuleti ed i tesori che sarebbero stati essenziali per affrontare il difficile viaggio dell’anima nell’aldilà.
Ad accogliere l’anima del defunto i due monarchi della terra, dei mari e dei cieli, erano Bama e Tiotor Andrilao (o Taotor Andrilabas), ai quali era associato un politeismo nel quale altre divinità compartecipavano al governo delle forze naturali e soprannaturali. Tra di esse Thana, dea della luna e delle foreste, Batas, il dio della folgore, e Bes (o Besa), la divinità che soprintendeva alla protezione della malasorte, sul modello della quale sarà poi costruita la figura dello “Scazzamurieddhu” (o “Lauru” lo gnomo dispettoso di tanti racconti della cultura contadina). Bes era infatti un ometto pelato, basso e pingue, barbuto e con le gambe storte, del quale vi sono raffigurazioni sui reperti conservati presso il Museo “Castromediano” di Lecce. Bes era invocato non solo come protettore dalla malasorte ma anche come nume tutelare della fertilità data la sua natura itifallica, venendone riprodotta la figura in corrispondenza dei crocicchi ed all’ingresso dei fondi.
La sede del culto di Tiotor Andrilao e di Bama era la Grotta della Poesia, presso Roca Vecchia, una delle prime località, come testimoniano evidenze archeologiche, di approdo dei Messapi. La grotta della Poesia, già luogo di culto di Medh, venne riutilizzata data la sua singolare struttura a tre caverne, l’ultima delle quali è raggiungibile solo tramite un sifone. In essa i Messapi incisero più volte il nome del loro dio ctonio, Tiotor, assurgendo la grotta, nella religione messapica, non più simbolo del ventre materno, ma del passaggio tra il regno della vita e quello dell’oltretomba.
Bathas, dio della folgore e della luce, adorato presso la grotta della Porcinara, a Santa Maria di Leuca, Come anche la dea Thana, venerata nel sacello dello Scalo di Furno, presso Porto Cesareo, sono divinità simili, nei tratti e nel culto a dei di un popolo che coi Messapi ha fin troppe corrispondenze, ossia gli Etruschi.
Nel V secolo a.C. i Messapi si unirono in una lega sacra, modellata secondo una struttura tipicamente etrusca, ossia la dodecapoli, nella quale il numero sacro 12 era la cifra della compiutezza (la riduzione di 12 è infatti 1+2=3, numero della perfezione e 3 x4 – numero della terra - è uguale nuovamente a 12) della ricomposizione della totalità originaria, la discesa in terra di un modello cosmico di pienezza e di armonia. La Lega, fondata su un solenne giuramento di fedeltà, fratellanza e reciproco aiuto, non solo mise fine ai dissidi che vi erano stati tra le varie comunità, ma costituì il germe dell’unità politica ed ideale del Salento come entità politica, insomma, il cuore stesso della nostra Identità.
Le Città fondate a quel tempo dai Messapi erano infatti molte più di dodici. Nella mappa di Soleto, l’ostakon portato alla luce nel 2003, figurano infatti solo le città messapiche del Salento meridionale, ossia Hydrus (Otranto), Taras (Taranto), Baletion (Alezio), Ozan (Ugento), Nareton (Nardò), Sollytos (Soleto o Sallentum, la Capitale messapica), Mios (Muro Leccese), Sty (Cavallino), Lios (Leuca), Lik (Castro), Baxta (Vaste), Thuria (Roca), e Graxa (Gallipoli), mentre la dodecapoli messapica era formata invece da Alytia (Alezio), Ozan (Ugento), Brention/Brentesion (Brindisi), Hyretum/Veretum (Vereto), Hodrum/Idruntum (Otranto), Kailia (Ceglie Messapica), Manduria, Mesania (Mesagne), Neriton (Nardò), Orra (Oria), Sybar (Lecce), Thuria Sallentina (Roca Vecchia).

Giuliana