Pinna Nobilis, secondo la classificazione di Carl Nilsson Linnaeus, nacchera per tutti gli altri: il più grande mollusco bivalve vivente nel mare Nostrum (in particolare in alcuni tratti costieri della Sardegna, del golfo di Taranto, di Gallipoli e Porto Cesareo, del parco costa Otranto Santa Maria di Leuca e bosco di Tricase, del napoletano, della Dalmazia e della Grecia). Può raggiungere fino ad un metro di lunghezza, ancorato al substrato marino con la sua estremità, con un tasso di crescita variabile durante il periodo medio di vita che si aggira intorno ai 20 anni.
Indicatore naturale dello stato di salute delle acque, la Pinna Nobilis funge anche da “filtro”, assorbendo dall'acqua sostanze inquinanti e agenti patogeni. Uno dei motivi che dovrebbe indurre a non consumare questo mollusco oltre al non meno importante pericolo di estinzione. È inserita nella lista rossa della direttiva CITES 92/43/CEE dell’Unione Europea e nei successivi aggiornamenti Direttiva 2006/105/CE tra le specie di interesse comunitario che richiedono una protezione rigorosa e perciò ne è vietata la raccolta se non per scopi scientifici.
I filamenti utilizzati dalla nacchera per ancorarsi al fondo hanno delle caratteristiche peculiari: possono raggiungere anche i 20 centimetri di lunghezza, sono molto resistenti, lucenti e hanno dei riflessi dorati. Specifiche che li hanno resi materia prima eccellente in sartoria per produrre tessuti dalle tonalità calde e vive, molto richiesti ma soprattutto costosi. Ed ecco che le naturali protuberanze filamentose di questa enorme cozza assumono un nome più elegante: bisso. Realizzando appositi strumenti di raccolta per preservare integri sia il guscio del bivalve (dal quale si possono ricavare scaglie di madreperla o delle originali tele per artisti), il mollusco interno, e il prezioso filamento, l’uomo ha saputo sfruttare fin dall'antichità tutte le proprietà di questo pregiato abitante dei mari. All'interno di una tomba del IV sec. d.C. a Budapest è stato rinvenuto un pezzo di un tessuto realizzato in bisso, mentre un berretto a maglia del XIV secolo è stato recuperato da una sepoltura a Saint-Denis.
A Taranto lo ritroviamo invece all'interno dell’enciclopedico resoconto del viaggio dell’abate di Saint-Non nell'antico regno di Napoli, che così scrive:
“Seguendo le rive del Mare Piccolo, arrivammo al punto dove questo braccio di mare è chiuso da due piccoli promontori. In questo luogo c’era un ponte chiamato Ponto di Penne, per il quale si comunicava con un sobborgo costruito sull'altra riva e che arrivava fino Galesus, il fiume tanto famoso, tanto cantato ma che altro non è che un piccolo ruscello in cui le acque scorrono dolcemente attraverso le canne; è vero che esse non servono più a lavare la lana tanto ricercata delle bianche pecore di cui parla Orazio.
A Taranto non si tinge più lana, ma si lavora molto con impegno la seta della Pinna Marina, di cui andammo a vedere la manifattura. I pescatori prendono questa conchiglia nel Mare Grande. Si sa che da ciascuna di queste specie di bivalve, del genere delle cozze, viene fuori un piccolo pezzetto di una seta fulva e luccicante; questi pescatori vendono la seta grezza a diciotto carlini alla libbra. Il prezzo è ridotto a tre once quando è lavata, pettinata e cardata, è questo il perché ogni prodotto di questa materia sia così caro e che mai potrà essere qualcos'altro che un oggetto di curiosità.”
Pochi decenni più tardi ne troviamo menzione anche nei diari di Janet Ross che così scrive:
“La pinna nobilis viene tuttora esposta nel mercato, col suo uncino speciale, il pernilegum descritto da Plinio, e che oggi chiamano «pernuetico»; la si mangia dalla povera gente, che la cuoce nella stessa sua bellissima conchiglia, e che la chiama lana-pesce per i lunghi filamenti che la tengono attaccata agli scogli. Anticamente, da questi filamenti serici si faceva un tessuto trasparente e costoso che vediamo in vari affreschi ad Ercolano, nelle vesti vaporose delle danzatrici; e, o lo si tingeva color porpora, o lo si lasciava nel suo color naturale di un giallo bruno. Adesso di quei fili della pinna, si fanno soltanto delle cravatte e dei guanti, come curiosità da offrirsi a forestieri.”
Un itinerario quasi d’obbligo, quello di Taranto, per i viaggiatori del settecento e ottocento che avevano come tappe irrinunciabili del proprio viaggio di formazione culturale in Italia molte destinazione nel regno di Napoli. Qui conobbero e diffusero ancora di più il misterioso fenomeno del tarantismo, che osservarono con curiosità, proprio come con curiosità e meraviglia si osservavano i filati di lana penna, i cui manufatti si incontrano anche all'interno delle relazioni delle visite pastorali nelle quali si parla di tappeti realizzati in “pelle d’oro”.
Un’attività attestata nel mare piccolo già sul finire del ‘600, nella quale ricadevano commissioni di prodotti donati poi a personaggi illustri oltreconfine per rendere onore, vanto e gloria ad una fiorente, anche se pur elitaria, attività tarantina.
Nel corso degli anni sono state avanzate diverse proposte per una coltivazione intensiva della Pinna Nobilis ed un successivo incremento della produzione del bisso fino a giungere al progetto della tarantina Rita del Bene, che nel 1936 brevettò un procedimento di fabbricazione dei tessuti dai filamenti della nacchera. Un risultato che non ebbe il riscontro sperato in una nuova evoluzione dell’economia tarantina ma che trovò seguito in numerose maestranze individuali di artigiane e sarte che, ognuna a modo suo nei diversi territori delle tre province dell’antica terra d’Otranto, definivano nuove modalità e tecniche di lavorazione di questo prezioso filato.
Tecniche e strumenti destinati ad essere dimenticati già a partire dal secondo dopoguerra, così come rischia di essere dimenticato questo grande mollusco, in rapida diluizione a causa del forte inquinamento dei mari e di tecniche di pesca intensive che poco rispettano i fondali e questa preziosa creatura.
Giuliana
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