Uno di questi giorni ti chiamo: voglio sentire che voce hai ora che è trascorso così tanto tempo dagli anni di Lady Oscar, i reggiseni sportivi e gli apparecchi ai denti.
Ti chiamo per sentire se avverto tra le tue parole il suono di quella S dolce tipica del paese che ti ha spinta lontana da qui.
Ti chiamo perché far esplodere in un suono parole e pensieri soffocati in qualche riga di chat in questi giorni non ha prezzo per me.
Ti chiamo per far rivivere dei ricordi belli di un’infanzia spensierata e fresca dove ci siamo tenute un’immensa compagnia trasformando quel cortile triste e desolante di anziani in un giovane e baldanzoso teatro di speranze e risate. Quante ore trascorse insieme a far baccano e ad escogitare le più innocue marachelle!
Ti chiamo perché certe cose si possono dire solo a voce lasciando che le emozioni danzino in un fiume di fermo-immagini e le brutte notizie vadano accompagnate da una voce calda che le sostiene e non lette in solitudine davanti ad una tazza di caffè nel buio della notte.
Ti chiamo per raccontarti di me, di come vivo ora che lui non è più con me; quel lui che hai conosciuto anche tu come il resto della compagnia e col quale tutti avevate scommesso sarebbe stato amore eterno. Mi manca ora, forse più che lui mi manca essere innamorata, attendere un messaggio. Ma in un mondo in cui tutto si cancella in fretta sono felice di aver provato e tenuto in serbo a lungo negli anni tante emozioni. La lontananza poi fa percepire tutto più chiaro e sono riuscita a mettere a fuoco, buttando i rancori, i motivi per cui è finita. E va bene così.
Ti dirò, senza troppo sorprenderti, che nulla è eterno in questo mondo e prova ne è stata Angela che sebbene fosse la più forte del gruppo questo mondo l’ha già abbandonato da un pezzo, dilaniata da un’improvvisa malattia, lasciandoci però una grande impronta di sé; un figlio che ha tutte le sue sembianze!
Ti racconterò dei graffi e le ferite che porto sotto pelle, le lacrime che ho versato e che sono quelle che mi hanno resa la donna forte che sono.
Ricordo quanto fossi intimorita a quei tempi nel confrontarmi con voi che sembravate così esuberanti e sicure della vita mentre io navigavo nella nebbia più profonda della mia ingenuità.
Portavo gli occhiali, il cerchietto in testa ed ero il ritratto di una santarellina casa e chiesa che arrossiva al minimo approccio. Fosse dipeso da me non ci saremmo mai conosciute. Fu mia nonna, santa donna, a inserirmi nel vostro gruppo per spingermi a socializzare in mezzo a persone della mia età allontanandomi da ago e filo per rammendare le calzette.
Lì per lì non apprezzai quel gesto, ma fu grazie a quello e alla vostra accoglienza che riuscii ad acquisire giorno per giorno sempre più fiducia in me stessa fino ad abbattere ogni forma di imbarazzo che mi teneva imprigionata nella mia solitudine.
Ricordare ora questi momenti mi fa sentire così lontana e distante dalla ragazzina di allora che quasi sembrerebbe si tratti di due persone totalmente diverse.
Eppure crescere significa anche cambiare e non solo taglia di vestiti e misura di scarpe.
Ho studiato nel frattempo l’origine della vita, i modi per vivere degnamente, le riflessioni degli agnostici, il pensiero dei religiosi. Ho frequentato gruppi spirituali, filosofi liberi…ho fatto l’amore, mi sono sposata e separata, ho partorito, ho trovato lavoro, ho visitato paesi, conosciuto gente di ogni parte del mondo, mi sono nutrita di speranze, illusioni, ma anche di spregiudicatezze e debolezze.
Ho imparato che si può guarire o uccidere con le parole. O farci un hobby e scrivere, scrivere, scrivere.
Sono fiera di essere qui, di appartenere ad un progetto esistenziale e spoglia di ogni paura che mi rendeva invalidante. Lo sguardo alla vita è qui, in questa casa in cui vivo da sempre e che ci ha fatto incontrare; per me culla del dolore e pozzo di infinita gioia.
L’ho ridipinta più volte, ristrutturata, ridisegnata la forma e abbellito il contenuto decorandola e personalizzandola per renderla più moderna possibile. Ma certe cose non sono riuscita a rimuoverle mai: una è la credenza in vetro che ti piaceva tanto e che simboleggiava il punto raccolta dei piccoli segreti di famiglia.
Quella da cui la nonna aveva preso i biscotti e te li aveva offerti in segno di gratitudine quella volta che mi accompagnasti fin su al secondo piano con l’ascensore perché io avevo paura a salirci da sola. E’ lì che sopravvive al tempo con la sua mole come se nulla fosse accaduto.
Sembrava così lontano tutto quel giovane entusiasmo vissuto intensamente invece è bastato sbirciare un po’ tra i contatti di questi moderni social per ritrovarmelo subito addosso come un bel vestito che indosseresti sempre.
Ho trovato anche Elisa che amava giocare all’Albergo e che ora gestisce una portineria.
Ivana che aveva più cura del suo Ciccio Bello che di sé e che ora è mamma di quattro marmocchi.
Valeria che assiste gli anziani con la stessa devozione con cui si prendeva cura dei bambini da giovane.
Non so più nulla di Maria e Letizia, le due sorelle sempre in conflitto tra loro ma le più simpatiche e trascinanti del gruppo.
E tu, cara Emma, ora che hai azzerato quei chilometri di terra e mare che ti separavano dal tuo paese, quante cose avrai da raccontare?
Sai che se mi appiccico al vetro della finestra e guardo giù verso le aiuole a volte rivedo ancora noi che a braccetto percorrevamo camminando avanti e indietro la superficie di cemento tutto intorno e ci facevamo confidenze degne delle più improbabili congetture fantasticando in un mondo immaginario?
Mi piacerà stare in silenzio ad ascoltare le tue parole; mi sembrerà di fare un tuffo nel mio passato più docile e caro e di conoscere il seguito di quel film che allora avevamo solo ipotizzato per noi, avide come eravamo di sogni e allettanti promesse ignare del fatto che le responsabilità andassero affrontate prima o poi.
Ti chiamo uno di questi giorni, fatti trovare Emma, perché ora tocca a te parlare, amica mia.
Sonia